Della sofferenza. Appunti fenomenologici come introduzione alla psicoterapia[1]
- Al di là e prima di ogni definizione specialistica di psicoterapia; al di là e oltre le specificazioni complesse e tra loro, come vedremo, anche contraddittorie dei suoi obiettivi, metodi, tecniche; al di là, infine, dei molteplici e altrettanto antinomici modelli di mente e, più profondamente, di uomo che si ritrovano, almeno implicitamente alla base dei diversi orientamenti della psicoterapia contemporanea; al di là di tutto questo, pare indubbio che qualsiasi discorso sulla psicoterapia non possa che configurarsi come collaterale al più ampio e preliminare discorso sulla sofferenza psichica, in quanto sofferenza specificamente umana. Così umana da essere coestensiva col concetto stesso di natura umana. E quindi sofferenza che esprime, manifesta e testimonia qualcosa di costitutivo dell’uomo in quanto uomo, in quanto specificamente diverso da ogni altro essere vivente.
- Le modalità del soffrire psichico, le sue origini, il suo svilupparsi, il suo permeare la persona incidendo sull’intera trama della sua esistenza, condizionando tempi, forme, qualità delle esperienze affettive, relazionali, ludiche, lavorative; il suo incidere sui modi e i contenuti della consapevolezza di sé; tutto questo consente e anzi obbliga a considerare la sofferenza psichica come orizzonte insuperabile della vita dell’uomo; come luogo e occasione del suo realizzarsi o perdersi; come contesto strutturale del suo stesso possibile diventare pienamente uomo o donna.
- Tutto questo obbliga quindi ad un’ampia introduzione alla natura della sofferenza psichica.
- Esattamente come impone una ricognizione sui modi, le strategie che gli esseri umani, come individui e gruppi e società, hanno “inventato” e continuano ad inventare per proteggersi da tale sofferenza: ovvero, per diluirla, allontanarla, controllarla, nasconderla: in breve, per sopravvivere a quella sofferenza.
- Altresì, in forza di 3. 4., siamo costretti ad ammettere che la condizione umana – a differenza di quella animale – sia stabilmente iscritta nell’orizzonte del patire, così che il vivere sia sempre (anche un) sopravvivere.
- Di qui, infine, la necessità di comprendere come nei processi biogenetici e, soprattutto, psico-sociali (intrapsichici e relazionali) di costruzione dell’identità individuale – di ciò che fa sì che ciascuno possa dirsi e sentirsi “Io” – debbano rinvenirsi le ragioni dell’inevitabile rischiosità insita nella forma-uomo – nell’esatta misura in cui tale “forma” è perennemente esposta al rischio di destabilizzarsi, di de-formarsi, di de-strutturarsi, provando ansia, angoscia, terrore.
L’ubiquità del patire.
- Per quanto ovvia ed evidente, l’affermazione, così cara alla filosofia buddista, dell’universalità della sofferenza, anzi della sua strutturale inerenza al vivere umano è una di quelle verità così …vere da apparire anche banali…per poter così essere definitivamente accantonate. Rimosse.
- Ciò non dovrebbe sorprendere in un mondo (quello Occidentale) e in una cultura (anch’essa occidentale e post-moderna) che proclama la felicità un diritto e ne parla come risultato raggiungibile e praticamente alla portata di (quasi) tutti.
- Nel secolo della felicità, del ben-essere la sofferenza, pur continuando ad esistere e, come vedremo, a diffondersi e manifestarsi in forme sempre più complesse e sfaccettate, non può (non deve?) essere pensata, né detta. Appunto e solo rimossa, messa da parte, nascosta.
- Certo, la sofferenza può esplodere clamorosamente, come negli attacchi di panico: la cui “essenza” risiede appunto nel far esplodere una sofferenza mai detta e occultata a se stessi in modo tale da renderla ancora più occulta, nascosta e mistificata sub specie corporis. E del resto è tipico, per chi ha sperimentato un attacco di panico, sviluppare un timore di morire legato alla percezione, assunta come vera, di avere un corpo che sta andando a pezzi ed una mente che…lo segue. Far soffrire il corpo diviene, così, l’ultima sponda compromissoria tra una sofferenza che non è più contenibile e che abbisogna di emergere e la necessità di tenere occulta l’origine di quella stessa sofferenza.
- del resto, in una società pateticamente e tragicamente narcisistica, ove il diritto (come si vedrà assurdo e patogeno) ad essere felici diviene inevitabilmente un obbligo ad essere felici così che il non esserlo prova il fallimento dell’individuo, soffrire equivale a sentirsi brutti in un mondo ove bisogna essere belli. Non è assolutamente un caso – e anche su questo si tornerà – che mai come in questa epoca così ricca e tecnologicamente sviluppata, il corpo è divenuto fonte di costante preoccupazione e la sua cura (fitness, wellness) causa di ansie disagi sofferenze e patologie pandemiche come quelle anoressico-bulimiche o dismorfobiche e/o somatoformi. Così che possiamo prendere atto del paradosso per cui lo spasmodico desiderio di vincere la sofferenza (sia essa fisica, che mentale che di status) si configuri oggi come una delle cause strutturali del diffondersi vuoi di nuove forme di sofferenza psicologica vuoi dell’intensificarsi di quelle “vecchie”. Paradosso che è poi l’altra faccia, coerente ed inevitabile, di quello riscontrato anche a livello di ricerca sociologica e antropologica: nelle società occidentali, lo sviluppo tecnologico e scientifico, l’aumento relativo del benessere economico, lo stesso innalzamento (anche se fragile) dei livelli di istruzione di base e la migliore tutela giuridica (oggi però entrata in crisi) dei ceti produttivi più deboli non ha trascinato con sé un aumento della “felicità percepita” e, anzi, ha visto crescere costantemente il disagio psicologico attraverso una crescita esponenziale del consumo di psicofarmaci e di sostanze psicotrope sotto vario nome, titolo e forma (dalla sigaretta alla cannabis, dall’alcool a comportamenti suicidali). Possiamo insomma dire che si è creata una stabile lacerazione tra la logica dello sviluppo socio-economico e la logica della crescita e maturazione psicologica.
- Questa lacerazione pensiamo costituisca l’orizzonte attuale della fenomenologia della sofferenza psichica. In particolare costituisce ciò che ci spiega il perché di quel deficit di mentalizzazione, di quella difficoltà ad e-laborare; digerire, metabolizzare la sofferenza; a sua volta causa/effetto degli automatismi stimolo-risposta; azione-reazione; bisogno-soddisfacimento; dolore-anestesia; progetto-risultato che rappresentano modalità comportamentali viepiù diffuse e potenzialmente auto-eterodistruttive. E che assumono, oggi, valenze, significati e manifestazioni fenomeniche anche nuove proprio in riferimento a quel deficit di mentalizzazione appena accennato.
L’orizzonte attuale della (nuova) sofferenza psichica.
- Viviamo, infatti, in un mondo di cose e immagini. In un mondo s-pensierato: letteralmente, senza pensieri. O dove il pensiero, la riflessione, il tempo per capire sono al margine, forse in esilio. Visti come qualcosa di strano-estraneo-straniero. Addirittura di inutile.
- Viviamo nel mondo dell’”a che serve?”. Dove le cose hanno valore se servono a qualcosa. Si noti però, a qualcosa di pratico, tangibile, che si vede, che dà risultati evidenti e concreti. Possibilmente, risultati anche immediati, o a breve.
- Possiamo quindi integrare la nostra asserzione iniziale (punto 1) dicendo: viviamo in un mondo di cose ed immagini orientato all’utile e scandito dal presto: dalla velocità, dal cambiamento rapido, dalla costante accelerazione dei processi di sostituzione del vecchio col nuovo. Siamo in un mondo costantemente sull’orlo di scomparire: non appena qualcosa appare, ecco che subito invecchia e già lascia il posto a qualcosa d’altro, che di lì a poco, scomparirà a sua volta.
- Siamo nel mondo della moda. In un mondo ove la moda (= immagine e transitorietà) rappresenta il paradigma, la logica, il criterio dell’essere delle cose e delle persone.
- E tutto si fa effimero. La vita una successione di istanti. Una continua interruzione. Sì, perché gli istanti non possono evolversi, non possono distendersi diventando durate, lassi di tempo, periodi, fasi, stagioni, cicli ecc. Essi vengono sistematicamente sostituiti uno con l’altro. Uno dopo l’altro. Anzi, vengono eliminati. In questo modo, gli istanti di tempo sono necessariamente istanti leggeri e quasi vuoti. Granelli di sabbia. Possiedono sì una pregnanza acuta e intensa, una densità consistente ma solo per il tempo del loro fugace apparire. Sono spasmi e morsi. In essi non c’è (più) il tempo del gusto. Sono “sveltine”: scariche.
- Nell’epoca dell’abbondanza, aumenta l’insaziabilità degli obesi: di chi ha già. Pieni di cose veloci, velocemente, voracemente assunte, non possiamo concederci il tempo della sazietà: appunto, del satis, del “basta”, basta così. E’ abbastanza (sufficit). Nulla basta, più. E nulla può davvero bastare. Se bastasse, tutto si fermerebbe. Solo il consumo sistematico (velocità e scarti: lo spreco come necessità della produzione dell’acquisto) consente di adeguarsi al puro continuo divenire, cambiare, mutare.
- La scomparsa del pensiero – assorbito da cose-immagini – ha lasciato il posto alla pura volontà di volere. Ad un volere incontinente, anarchico, in-sensato, distruttivo, suicida. Non è una reale volontà di vivere quella che struttura il mondo delle cose ed immagini; il mondo senza pensiero. Bensì una reale volontà di perdersi tra-nelle-con-per le cose. Vivere diviene un dis-perdersi per non dis-perarsi. Per fuggire quel vuoto essenziale che è la profonda struttura del divenire puntiforme, anzi di quella pura punteggiatura senza testo che è il mondo delle cose ed immagini. Di più: quella volontà di volere è “pura” in senso forte: pura perché volontà paraistintuale, pura pulsione. Appunto: un volere senza pensiero, senza giustificazione e fondamento. Come giustificare in assenza di tempo? Del tempo del pensiero, del ragionamento che si sviluppa e comprende per approssimazioni, tentativi, errori: discorsi. E come “fondare” senza “scavare”, senza “andar giù”, “sotto” il puro volere e trovare il “perché”, il “fine”, il “senso” di quel volere e del volere questo invece di quello?
- Nella società del puro volere, il potere diviene l’unica ragione e criterio del fare. Se posso farlo, allora voglio farlo. Se si può, si fa. E come non farlo se non si dà la pensabilità del potere e del volere? La possibilità del fare, a sua volta, diviene l’unica preoccupazione collettiva. Una sorta di “legge di natura”. Tolto il pensiero, tutto diviene un “come” e il “perché” scompare. Assieme al senso.
- Nel mondo del vivere centenario, della vita che si estende sempre di più, si è perso il senso del vivere. Così che si sono aperte le porte per una lunga vita in-sensata. Ci avviamo a vivere di più non sapendo più come vivere, perché, in vista di quali mete e alla luce di quali speranze e progetti. Per questo, la morte, rimossa dalla grande rappresentazione massmediale (matrice di un nuovo inconscio collettivo), opera nascostamente come la grande protagonista del nostro tempo. Essa incombe silenziosamente su ogni attimo di questa vita che si allunga. E non può essere altrimenti: diventando la vita un continuo, dissennato tentativo di allontanare il più possibile la morte, quest’ultima viene a configurarsi come il rumore di fondo di questo vivere; il ghigno sarcastico di quel nulla che la vita in-sensata è già diventata..
- Da qui, o da qui vicino, non può non partire una attenta rilettura e ridefinizione della logica e del senso dell’agire psicoterapico: di quell’agire pensato e sentito che dovrebbe promuovere quei livelli di consapevolezza (di sé, dei propri bisogni, delle proprie emozioni, delle proprie risorse) indispensabili per una matura gestione del dolore; per un suo accoglimento non fobico-difensivo; per un suo superamento creativo;
- Di qui, o da qui vicino, dovrebbe anche derivare una pratica della psicoterapia ipnotica capace di accogliere questi luoghi e contesti di non-pensiero, di un puro afasico sentire (spesso panicale, talvolta depressivo, talaltra svuotato e sfiduciato) per poi restituirli al paziente sotto forma di occasioni di senso: appunto, come occasioni per re-incontrare quel deposito di senso, di saggezza, di desiderio consegnato e conservato nell’inconscio ed elicitabile attraverso un accorto e delicato “utilizzo” di stati modificati di coscienza nel contesto di una valida relazione comunicativo-affettiva (rapport) .[2]
[1] Il presente lavoro rappresenta una sintesi, inevitabilmente schematica, dei punti-chiave, di carattere epistemologico, esposti distesamente in alcune lezioni dello scorso anno. La scansione per punti è stata adottata per consentire tanto un maggior livello di chiarezza espositiva, quanto e soprattutto per favorire un controllo critico sui singoli passaggi e quindi ottenere un feed-back di stimoli, suggerimenti e osservazioni
[2] La bibliografia è disponibile presso la segreteria.