L'approccio non direttivo e meta - interpretativo in psicoterapia
1. "Avvicinarsi alle idee"
2. Premesse teoriche e già psicologiche
3. "Avvicinarsi all'oggetto"
a. Relazione e comunicazione: l'alfa e l'omega della terapia psicologica.
b. Comunicare cosa, comunicare come
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" Approccio" da approcciare, derivante dal composto latino " ad prope " (andar vicino, presso) e’ un termine che designa un atto o processo di avvicinamento a qualcuno o a qualcosa.[1]
L’approccio di cui vorremmo parlare in questa sede attiene ad un modo di intendere e praticare l ’ " ad prope", l’ andare vicino a quel “qualcosa” chiamato "psicoterapia".
Abbiamo detto modo di "intendere e praticare". Ciò significa che l’approccio di cui parleremo si nutre di due istanze e di due oggetti di riflessione:
- uno teorico: connesso all’avvicinamento al "cosa sia " della psicoterapia;
- uno pratico: connesso all’avvicinamento al "come sia o dovrebbe essere il ‘funzionare’" della psicoterapia.
La scelta del termine "approccio" non va intesa in senso retorico, e cioè come espressione di un semplice e formale atteggiamento di cautela. Bensì come espressione della consapevolezza della notevole complessità dei fenomeni e dei problemi inclusi nel termine "psicoterapia"; nonchè della consapevolezza della attuale limitatezza e fragilità epistemologica dell’insieme delle teorie psicologiche (dinamiche e non) che stanno a fondamento degli schemi concettuali e delle concrete modalità operative di tutta la psicoterapia contemporanea. Parleremo di approccio quindi, perché la psicoterapia non può essere, oggi, che semplicemente "avvicinata".
E questo perché qualsiasi discorso di o sulla psicoterapia non può configurarsi, se criticamente inteso, che come discorso "intorno", "nelle vicinanze" di una realtà fenomenica ancora confusa e tantomeno rigorosamente definita: appunto, di una realtà ancora priva di chiari consensuali "confini" teorico-concettuali.
Esattamente come qualsiasi pratica psicoterapica non potrebbe né dovrebbe, allo stato attuale delle conoscenze “scientifiche”, essere attuata se non come modalità di avvicinamento alla realtà, altrettanto complessa, sfuggente e non ben delimitata concettualmente, della sofferenza psichica.[2]
1. "Avvicinarsi alle idee"
Si è detto di un approccio come di una avvicinamento teorico al " cosa sia" della psicoterapia. Saremmo degli ingenui se pensassimo che l’avvicinamento ad un oggetto, la sua semplice osservazione sia concettualizzabile come pura, passiva registrazione della sua fenomenologia obiettiva.
Un oggetto puramente percepito o, meglio, osservato è un oggetto concettualmente "vuoto". Se si vuole è un oggetto sì registrato, ma "muto": un oggetto-sfondo. Soprattutto, un oggetto a-problematico. Forse un oggetto invisibile perché non visto: a rigore, infatti, noi possiamo vedere senza capire e guadare senza vedere. Se si vuole, possiamo vedere-che e non perché.
Nella realtà logica e psicologica, noi ci avviciniamo ad un oggetto sulla base di un interesse e secondo una intenzionalità nella cui origine è già consegnata una pre-concezione dell’oggetto.
Più che vedere, noi "andiamo a vedere": il "se", il "cosa", il "come (e il come mai) " e il "perché" di un oggetto, di un dato, di un fenomeno; del suo accadere "così" (invece che "cosa"), del suo accadere "ora" (invece che "allora"), ecc...
In breve, noi percepiamo secondo modalità problematizzanti e interrogative. La qualità, i contenuti, il senso di questo sguardo (di questa " andar verso") problematizzante e interrogativo sono i vettori che dirigono la nostra osservazione e che ci fanno guardare l’oggetto secondo determinate angolature (: che ce lo fanno vedere "così", invece che "cosa" -quando magari l’oggetto è visibile "così e cosa").
Ciò altresì significa che noi siamo "memoria-che-guarda": che ci avviciniamo all’oggetto secondo un asse cognitivo-emotivo--(l’interesse all’oggetto non essendo mai pura scelta logica e razionale)--che non è in atto, che non si genera nella contingenza empirica del nostro incontro con l’oggetto, ma che ha una storia. Precisamente, la storia di ciò e di come abbiamo appreso ciò che abbiamo appreso: la storia dello sviluppo, per l'apprendimento, dei nostri stessi codici di interrogazione del mondo che ci circonda.
Avvicinarsi all’oggetto psicoterapia" ci pare allora che debba configurarsi come un avvicinarsi critico alle concezioni di psicoterapia che ci hanno insegnato o che abbiamo incontrato vuoi tramite la ricerca teorica, vuoi tramite esperienze personali, soggettive, vuoi tramite testimonianze (autorevoli e amicali) di essa.
Il primo approccio alla psicoterapia, meglio l’inizio del movimento di avvicinamento ad esso, se produttivo vuole essere, non può pertanto presentarsi che come movimento di rilettura delle idee e dei modelli di psicoterapia appresi.
Una delle premesse fondamentali di quello che abbiamo ritenuto di poter concettualizzare come " approccio non direttivo e meta-interpretativo in psicoterapia" risiede proprio in questo: nel mantenimento di una forte distanza critica e di una notevole apertura epistemologica circa le "idee" sulla psicoterapia e della psicoterapia.
Giacchè in pochi ambiti disciplinari è dato riscontrare tra le "idee (i.e. le "costruzioni teoriche") e i loro "oggetti di riferimento" (la fenomenologia psicologica e psicopatologica dell’uomo) connessioni così spurie, contraddittorie e mistificanti come quelle reperibili in campo psicoterapico.
E questo - si noti - non per una particolare insipienza degli studiosi del campo (psicologi, psichiatri, psicoterapeuti ecc.), ma per la natura stessa dell’oggetto di studio: la fenomenologia ideativa, emotiva, affettiva e relazionale dell’uomo in quanto ente che soffre di se e degli altri.
Quello che vogliamo qui evidenziare con forza anche se con inevitabile schematismo è che quando abbiamo a che fare con " dati " e "fatti" lontani, per consistenza fenomenica, dalla "cosalità" tipica del dato-fatto naturale e fisico, il piano teorico, ovvero l’insieme delle idee che elaboriamo su queste dati-fatti non cosa li interviene non solo nella forma della loro rappresentazione concettuale, ma anche nel processo della loro costruzione al punto che, nella massima buona fede, possiamo costruire dei fatti...non esistenti.[3] Oppure possiamo deformarli, alterarli, distorcerli mediante un'estrapolazione ingigantita di loro aspetti parziali, settoriali, talora marginali. La consapevolezza della complessità e ambiguità del rapporto tra teorie psicologiche e" uomo (che soffre) "; e soprattutto la consapevolezza dell’intima fragilità epistemica e logico-metodologica del pensare psicologico che fa di tale pensare, spesso, più una pura ‘Loghìa doxematicà, un puro ‘discorrere opinabile e per opinioni, ricco della ricchezza del discorso letterario e però, come tale discorso, anche ambiguo e confusivo (perché tramite esso tutto è dicibile: tutto e il contrario di tutto) per cui tale pensare psicologico non può ancora considerarsi pensare compiutamente scientifico. Questa consapevolezza duplice, lo ripetiamo, è una delle basilari premesse teoriche e già psicologiche dell’approccio non direttivo come da noi inteso.
2. Premesse teoriche e già psicologiche
Siamo dell’avviso che la forma di consapevolezza appena esposta sia di difficile applicazione pratica. Sia cioè di ardua gestione intrapsichica nella concretezza della relazione di setting.
E’ questa, infatti, una relazione umana ove i livelli di ansia (che, almeno in buona misura, nascono da un genuino interesse per l’altro che si declina e coniuga di fronte a noi e con noi) sono tali da imporre quasi un "bisogno", una necessità di comprensione totale dell'altro. Di capire cosa, come e perché si trovi nella situazione in cui si trova; nonché di capire come aiutarlo a venirne fuori (cosa che del resto il paziente a più riprese chiede, richiede e pretende).
Ma vi è poi anche un secondo movimento intrapsichico che si oppone (e quanto potentemente!) alla pratica "interiore", all'integrazione armonica della suddetta consapevolezza nel contesto del setting. Ci riferiamo alla dinamica, narcisistico-“sadica” (sovente di origine infantile, talvolta indotta, o promossa dal tipo di training ricevuto, o "subito") In forza della quale il terapeuta inconsapevolmente desidera" (e in taluni più più drammatici casi, " ordina " attraverso modalità più o meno implicite e silenziose o esplicite e direttive) che il paziente "sia" come egli lo concettualizza, o "abbia" ciò che egli ha "visto in lui" , o soffra per le ragioni che egli "ha scoperto".
Dinamica questa che si fa più frequente o probabile se ciò che il paziente "è", "ha" o di cui soffre corrisponde fenomenologicamente a ciò che il terapeuta o analista "sa di sè" o di sè ha "magistralmente" appreso durante il suo training.
Premessa teorica e psicologica quella della suddetta consapevolezza e già formativa: ossia già funzionale ad un avvicinamento teorico e pratico alla psicoterapia capace, o per lo meno, virtualmente funzionale a eliminare o a ridurre la più sottile e profonda e subdola forma al tempo stesso di distorsione percettiva e di direttività manipolativa: quella connessa alla nostra costruzione concettuale dell'altro da noi. [4]
3. "Avvicinarsi all'oggetto"
E’ indubbio che avvicinarsi all'oggetto psicoterapia" rinvii ad un esame del " cos'è" della sofferenza psichica (ossia del campo di intervento dell'agire psicoterapico) e, in seguito, del "cosa è" della psicoterapia, ovvero ad una definizione delle sue modalità e ragioni di intervento.[5]
Per evidenti ragioni di spazio, non possiamo concederci qui l'obiettivo, pur importantissimo (e in altra sede da noi già trattato), della disamina critica delle varie teorie o modelli di sofferenza psichica (nonché dei modelli della struttura e della dinamica psichica umana). A questo riguardo, non possiamo che ribadire come, anche in questo caso, dovrebbero valere quelle avvertenze critiche da noi tracciate nel precedente paragrafo.
Più utile, al fine di meglio tracciare se non una compiuta "carta di identità" dell'approccio non direttivo e meta-interpretativo, almeno un suo apprezzabile "schizzo", più utile si diceva è evidenziare alcune delle sue più essenziali connotazioni pratiche e applicative.
a. Relazione e comunicazione: l'alfa e l'omega della terapia psicologica.
Prenderemo le mosse dal seguente intreccio proposizionale (della cui assertività necessitata ma non voluta ci scusiamo):
1. la psicoterapia (al di là di tutte le sue molteplici e contraddittorie diversificazioni teoriche e tecniche)
appartiene alla classe delle relazioni umane specialistiche e significative:
a. "classe delle relazioni umane": perché in essa sono reperibili, quali "protagonisti" dei soggetti umani che entrano in un rapporto dotato di sufficiente durata temporale, di sufficiente coinvolgimento emotivo, di sufficienti livelli comunicazionali da renderlo, a questo livello, sovrapponibile a ciò che nel linguaggio e nella realtà comune (a- specialistica e a-professionale) denominiamo "relazione umana";
b. "specialistiche": perché tra i protagonisti di tale ~ relazione, uno, (il terapeuta o analista) si presenta portatore di particolari competenze professionali di origine disciplinare; nonché perché relazione scelta dall'utente stesso con finalità "speciale" (appartenente alla classe della" cura ");
c. "significative": perché proprio per la particolarità della coniugazione di aspetti umani e specialistici, la relazione psicoterapica si riveste di una acuta pregnanza psicologica (soprattutto per l'utente); di una pregnanza che la rende particolare e particolarmente rilevante (i.e. dotata di profondo significato umano ed esistenziale) per chi la richiede.
Se quanto qui asserito e’ accettabile, allora consegue che avvicinarsi alla psicoterapia vuoi dire avvicinarsi alla fenomenologia delle modalità relazionali e comunicative che la strutturano, che la specificano: la fanno essere "lei" nel novero delle molteplici pratiche specialistiche.
Ancora, vuol dire che sarà nel modo di comunicare e relazionarsi che troveremo la base empirica delle differenze intra-psicoterapeutiche.
b. Comunicare cosa, comunicare come
La comunicazione è il processo dell'interscambio informativo-classificatorio al cui interno e in forza del quale avvengono tutte le interazioni umane e tutte le umane modalità relazionali.
Ciò che comunichiamo, come lo comunichiamo e perché lo comunichiamo sono le modalità attraverso le quali noi veniamo ad interagire con i nostri simili, così creando tra noi e loro le invisibili e profonde coordinate al cui interno definiamo la nostra relazione con loro: il "chi è" del nostro essere con loro, il "chi è" del loro essere con noi.
Comunicare, in altri termini, non è solo trasmettere informazioni ma, al tempo stesso, è anche definire il nostro ricevente, nella forma della definizione della nostra relazione con lui.[6]
Proprio questa intima bivalenza, questa intima e duplice virtualità informativo-definitoria è ciò rende il processo comunicativo (umano) dotato di altri due esiti bivalenti: quello del favorire la conoscenza e crescita nostra e degli altri (dell'emittente e del ricevente); quello della manipolazione dei termini in comunicazione.
Ovviamente, per "manipolazione", non dobbiamo intendere qualcosa di grossolanamente violento o aggressivo. Men che meno di esplicito e consapevole (nè per l'emittente nè per il ricevente).
Più sottilmente, dobbiamo intendere un processo, in larga misura inconsapevole, e tale per cui la manipolazione si presenta nella forma della definizione del sapere e dell'essere dell'altro attuata mediante parole (o silenzi, che delle parole sono il contrappunto; o gestualità, che delle parole sono il commento meta-linguistico).
Bene, se analizziamo il comunicare psicoterapico alla luce di questo duplice parametro informativo/manipolativo,
potremo notare come quelle modalità comunicative chiamate "interpretazioni" (che costituiscono lo "strumento di lavoro" dell'intero universo delle psicoanalisi)[7] presentino una forte accentuazione della dimensione manipolativa.
Che significa "interpretare"?
Ortodossamente, l'interpretare è 'enunciazione di asserti contenenti informazioni sul "veramente detto" del paziente (del ricevente).
L'analista, interpretando, compie una operazione composita, in forza della quale comunica al suo ricevente una
"verità":
- che a lui sfugge;
- che lui non solo non sa, ma che sa diversamente,
- una verità che pertanto si oppone al suo sapere di sè.
Interpretare, quindi, non è un puro dare informazioni. Bensì è un definire (anche in senso etimologico: dare dei confini, stabilire dei limiti) le forme e i contenuti della consapevolezza che il soggetto ricevente ha di sé
. In breve, è un intervenire sul sistema di riferimento cognitivo-emotivo in forza del quale l'individuo elabora forme e contenute della propria autopercezione.
Si noti, l'interpretare no è un semplice "spiegare". Più profondamente è uno spiegare " contro" : esattamente uno spiegare che si oppone alla coscienza, al piano cognitivo e emotivo non del paziente ma che è il paziente. Esemplificativamente: comunicare al paziente che le sue manifestazioni di stima all'analista, in realtà, contengono alti livelli di aggressività verso di lui, coprono sensi di inferiorità, collegati a sentimenti analoghi provati in rapporto ad una figura paterna vissuta come onnipotente vuoi dire enunciare asserti che non si limitano a fornire nuove informazioni sul "detto" del paziente, ma che ridefiniscono il senso complessivo, l'intero orizzonte di significato in una misura e secondo una prospettiva che non solo non è iscritta nel" detto" ma che addirittura è da esso formalmente negata. Emerge qui pertanto come l'interpretare sia, sostanzialmente, un destrutturare per via della ricodificazione del senso e del significato del detto (sognato, fatto) del ricevente-paziente .
Ora quello che ci interessa rilevare in questa sede non è solo e tanto il livello di attendibilità delle griglie teoriche (i modelli di mente e di patologia psichica) che consentono all'analista di procedere al suvvisto processo di destrutturazione interpretativa, bensì e soprattutto la valenza obiettivamente manipolativa di tale procedere.
Giacchè, anche se il processo interpretativo fosse vero (anche se, cioè, il detto dell'analista fosse realmente il "veramente detto" del paziente) resterebbe pur vero che tale processo interpretativo si pone come attività di decentramento del focus coscienziale del paziente e quindi come attività che pone il paziente nella condizione di ri-vedersi e ri-sapersi secondo uno sguardo che non nasce da lui ma da un altro: dall'analista.
Chiamiamo “manipolazione” qualsiasi modalità comunicativa che pone il ricevente nella condizione di un acritico (e, in parte, necessitato) apprendimento eteronomo.
Conviene soffermarsi un attimo su questa nostra asserzione. E chiarire:
- che per apprendimento "eteronomo" non intendiamo l'acquisizione di dati informazionali puri e semplici: tale acquisizione, infatti, costituisce il minimo comun denominatore di tutte le forme di apprendimento; per certi aspetti è una delle plausibili definizioni dell'apprendimento in quanto tale;
- che, per conseguenza, l'apprendimento è sempre eternomo o, meglio, sempre presenta una dimensione eteronoma: un suo dipendere dall'altro da noi, da ciò che l'altro ci comunica;
- che la qualificazione eteronomica, da noi usata in senso negativo, si riferisce ad un tipo particolare di apprendimento: precisamente all'apprendimento-di-noi, e cioè a ciò che veniamo a sapere, comprendere e valutare di noi, della nostra vita, del nostro modo di essere, sentire ecc.;
- che tale qualificazione negativa dell'eteronomia non è da intendersi in assoluto, ovvero non implica che l'apprendere di noi per il tramite dell'altro, sia in sè e per sè cosa negativa. E non lo implica per il semplice fatto che ciò avviene regolarmente e normalmente: come regola e norma. Noi, in effetti, giungiamo a sapere di noi (e qui non ha importanza se questo sapere sia "vero" o "falso") per il tramite degli altri: e ciò avviene dall'infanzia in poi. Gli altri (l'universo dell'alterità) sono l'orizzonte psico-relazionale al cui interno noi ci facciamo noi, così raggiungendo determinate forme e livelli di consapevolezza;
- infine, che tale qualificazione negativa si fonda proprio sullo scarto e, anzi, a nostro avviso, sulla profonda diversità/avversità che intercorre tra il "normale" apprendimento di noi per via eteronomica nelle normali (non specialistiche) relazioni umane e l'apprendimento di noi per via analitico-interpetativa giacché quest'ultima, in forza della sua essenza "esplicativa", del suo sguardo "profondo", soprattutto, del .suo scavalcare le forme contingenti del "nostro sapere di noi" non agisce come comunicazione aggiuntiva all'universo delle nostre "normali" esperienze comunicative, bensì come comunicazione autorevole e vera, quindi come aggiunzione intrusiva di uno sguardo su di noi che non è da noi costruito: che è eteronomo perché fondato sulla " legge altrui ".
[1] Si noti che l’andar vicino, a suo volta, implica una strutturale insicurezza circa la posizione ove si trova l’oggetto cui andar vicino. Si approccia, quindi, qualcosa di cui non sappiamo bene qualcosa: un senso, un significato, un intenzione, una disponibilità. Si tratta insomma di un termine epistemicamente debole.
[2] E’ di pochi mesi fa la comparsa di un un nuovo esempio di riclassificazione diagnostica dei “mental diseases”: questa volta di matrice psicodinamica il PDM.
[3] Ad esempio, fino a che punto possiamo chiamare “fatto” una fantasia inconscia? O anche lo stesso inconscio – persino quello di matrice ericksoniana. In che senso, se sono fatti, questi “fatti” esistono?
[4] Si noti: la costruzione concettuale dell’altro è, a certe condizioni ed in certi momenti del lavoro psicoterapico, inevitabile: a condizione che sia collegata alla consapevolezza del suo essere un nostro costrutto, un nostro procedere abduttivo per ipotesi e, appunto, approssimazioni.
[5] Ci pare comunque opportuno sottolineare come vi sia, comunque almeno una possibile “definizione” di psicoterapia dotata di una sua forte compatibilità teorica ed epistemica con l’ordine delle nostre riflessioni: ci riferiamo a quell’intendere la psicoterapia, quell’”approcciarla” come specie particolare della classe delle relazioni umane significative. Intendendo per significative quelle relazioni umane:
- Che durano nel tempo;
- Che si strutturano nel tempo;
- Che producono esperienze ad alto impatto esistenziale;
- E che permettono l’emergere di dinamiche identificativo/proiettive tramite le quali l’altro o gli altri significativi vengono in qualche modo interiorizzati, così entrando a popolare il nostro mondo interiore.
[6] Inutile rammentare che è a questo livello che tutta la psicoterapia contemporanea non può non manifestare il suo debito di gratitudine per gli apporti della scuola di Palo Alto.
[7] Avremo modo, in altra sede, di evidenziare come la storia della moderna psicoanalisi – la storia della sua crisi e dei suoi sviluppi più contemporanei coincida con la crisi e ridefinizione molto critica dei limiti dello strumento interpretativo.